Aggiornamento giurisprudenziale in collaborazione con IgiTo – Istituto giuridico internazionale di Torino. N.B.: Le informazioni offerte sono di carattere generale, hanno fine meramente divulgativo e non sostituiscono in alcun modo l’assistenza di un professionista. Per informazioni: info@studiolegalegiannone.it.
Rito del lavoro e interrogatorio del testimone da parte del giudice su circostanze non capitolate.
Nel rito del lavoro, è corretto l’operato del giudice che, nell’ambito di una controversia promossa per accertare la natura subordinata di un rapporto di lavoro, chieda al testimone di precisare, al di fuori delle circostanze capitolate, se venisse rispettato un orario di lavoro, quali fossero le mansioni svolte dal prestatore nonché in quale posizione materiale la prestazione fosse effettuata, dovendosi ritenere che la possibilità di porre tali domande sia consentita, se non anche imposta, dall’art. 421 c.p.c., e ciò tanto più ove al ricorso siano stati allegati conteggi elaborati sul presupposto dello svolgimento di determinate mansioni e orari e la controparte abbia contestato, oltre alla natura subordinata del rapporto, anche lo svolgimento di un orario a tempo pieno (massima ufficiale).
(Cassazione civile, sez. IV, 14 aprile 2021, n. 9823)
Azione di nullità del regolamento contrattuale di condominio.
L’azione di nullità del regolamento “contrattuale” di condominio è esperibile non già nei confronti dell’amministratore, carente di legittimazione passiva, ma da uno o più condomini nei confronti di tutti altri, in situazione di litisconsorzio necessario, trattandosi, da un punto di vista strutturale, di un contratto plurilaterale avente scopo comune. Ne consegue che la sentenza che dichiari la nullità di clausole dello stesso, accogliendo la domanda proposta nei confronti del solo amministratore, non solo è inidonea a fare stato nei confronti degli altri condomini, ma neppure può essere appellata da uno ovvero alcuni di essi, benché si tratti degli effettivi titolari (dal lato attivo e passivo) del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, potendo detto potere processuale essere riconosciuto soltanto a chi abbia assunto la qualità di parte nel giudizio conclusosi con la decisione impugnata (massima ufficiale).
(Cassazione civile, sez. VI, 10 Marzo 2021, n. 6656).
Danno da caduta in un centro sportivo: corresponsabilità del titolare e dei genitori disattenti.
A causa dell’utilizzo – irregolare – di uno scivolo una bambina subisce un brutto incidente, riportando rispettivamente la perdita e la rottura di due denti.
Il genitore cita in giudizio il titolare del complesso sportivo, chiedendone la condanna al «risarcimento dei danni patiti dalla figlia a seguito della caduta avvenuta in uno scivolo d’acqua», caduta cui aveva fatto seguito «la rottura degli incisivi superiori».
I giudici del Tribunale riconoscono la responsabilità del titolare della struttura – oltre che quella del padre della bambina – e lo condannano al «pagamento della somma di ottomila euro, peraltro già riconosciuta», come detto, «in sede di giudizio penale a titolo di provvisionale».
In Appello, poi, viene ribadita la pari responsabilità del titolare della struttura e del genitore della bambina.
Inutile il ricorso proposto in Cassazione dalla persona vittima dell’incidente in piscina.
Per gli ermellini infatti «il padre non era presente al momento dell’incidente» capitato alla figlia. Ciò che conta però, concludono i magistrati è che «il fatto di accompagnare contemporaneamente tre figli minori, tutti bisognosi di controllo, in una struttura solo parzialmente custodita e potenzialmente fonte di pericolo, non può essere un elemento che sgrava il genitore di ogni responsabilità, anzi, al contrario, conferma la sua colpevolezza».
(Cass. Civ. sez. VI civile, ordinanza n. 13503/2021)
Assegno divorzile alla ex-moglie che rinuncia alla prospettiva di carriera in favore di quella del marito.
Con questa decisione i giudici della Cassazione mettono in luce come le scelte condivise dei coniugi relative al tipo di lavoro possano legittimare la richiesta di assegno divorzile per il coniuge che ha “rinunciato” ad una progressione di carriera.
In particolare, nel caso che ci occupa, la donna era tornata in un piccolo paese «portando con sé le figlie e scegliendo così di non rimanere in città, ove il marito svolgeva la propria attività professionale, e di non ricercare lì una occupazione».
Per i Giudici della Cassazione «l’esigenza perequativa assolta dall’assegno divorzile ben può maturare rispetto ad un ménage familiare in cui i coniugi, per esigenze lavorative, si siano trovati a vivere in due distinte città».
Nelle proprie difese l’uomo sottolinea l’illogicità del sostenere che «la scelta della moglie di tornare in piccolo paese per riprendere, dopo la nascita delle figlie, il suo lavoro rappresentava una opzione fatta a favore dell’attività e della carriera dell’ex marito, cosa che avrebbe potuto dirsi ove la donna avesse lasciato il proprio lavoro per dedicarsi a tempo pieno alla famiglia in città o là dove ella avesse accettato in città un lavoro meno redditizio, rimanendo però accanto al marito».
E inoltre, sempre secondo l’uomo, è ancor più illogico ritenere che «la scelta fatta» possa aver impedito alla donna di «far carriera nella pubblica amministrazione», comportando per lei «un sacrificio nella conduzione domestica». Su questo fronte, aggiunge l’uomo, non è stato «valutato il sacrificio» da lui compiuto e consistito nel «dover vivere quotidianamente senza la famiglia e senza i figli», mentre si è sostenuto che tale situazione ne abbia «favorito la carriera».
Per i Giudici della Cassazione, però, queste osservazioni non sono sufficienti a mettere in discussione le valutazioni compiute in Appello, laddove si è valutata la condotta della donna come frutto di una scelta condivisa col marito e come un passo indietro che ha consentito, all’epoca, un progresso economico per l’uomo.
(Corte di Cassazione, sez. VI Civile, ordinanza n. 13459/21)
Il privato ha diritto al risarcimento in caso di ritardo o inerzia se la sopravvenienza normativa gli impedisce di realizzare il progetto.
E’ quanto ha stabilito il Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria con la sentenza n. 7 del 2021 che torna a pronunciarsi sulla natura della responsabilità della P. A. per danno da ritardo nell’emanazione di un provvedimento amministrativo.
Precisamente, la Plenaria esamina i riflessi della responsabilità della P.A. per inerzia o ritardo sia da illegittimità provvedimentalesia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento che causa una lesione di interessi legittimi, giungendo alla conclusione che si tratta di una responsabilità da fatto illecito aquiliano e non già una responsabilità da inadempimento contrattuale, ed evidenziando, altresì, la necessità di accertare che vi sia stata la lesione di un bene della vita. Per la quantificazione delle conseguenze risarcibili il Collegio ritiene che, in virtù dell’art. 2056 cod. civ. si applichino i criteri limitativi della consequenzialità immediata e diretta e dell’evitabilità con l’ordinaria diligenza del danneggiato, di cui agli artt. 1223 e 1227 cod. civ., e non anche il criterio della prevedibilità del danno previsto dall’art. 1225 cod. civ.
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 7/2021)